giovedì 14 dicembre 2017

Samadhi Sitaram - KaliYuga Babalon (2017)

“Bizzarri”: è questa la parola migliore per definire i russi Samadhi Sitaram. Parliamo di un gruppo strano sotto tutti i punti di vista, per esempio quello visuale: basta guardare uno qualunque dei loro videoclip per accorgersene. Anche dal punto di vista lirico la band è particolare: testi ispirati a filosofia e spiritualità orientale non sono poi così tipici, almeno nel loro genere. Ma proprio quest’ultimo è la caratteristica dei Samadhi Sitaram che spicca di più: parliamo di uno stile indefinibile, davvero difficile da classificare. Di base è un deathcore con forti influssi math, che però i russi portano su lidi ancor più sperimentali, con un gran numero di influenze che vanno dal progressive all’industrial, passando per il metal estremo. La sua caratteristica principale è però la schizofrenia assoluta: cambi di tempo repentini e inaspettati e strutture ardite sono all’ordine del giorno nella loro musica. È proprio questa originalità il punto di forza principale di KaliYuga Babalon, secondo album di una carriera lampo – iniziata nel 2016 ma con già due full-lenght all’attivo – uscito sotto Sliptrick Records. Si tratta di un lavoro di buona qualità; c’è da dire però, dall’altro lato, che qui i Samadhi Sitaram mostrano anche alcuni limiti. Per esempio, KaliYuga Babalon è un album un po’ inconsistente: in fondo sono solo sei i pezzi effettivi – e se uno di essi non fosse lungo sedici minuti, sarebbe più un EP che un full-lenght vero e proprio. Soprattutto però i russi a volte spingono troppo sul lato dello sperimentalismo, perdendo il focus sulla musicalità: ne risulta che a tratti diventano insipidi e noiosi. Sono ingenuità che non limitano più di tanto KaliYuga Babalon, seppur io sia dell’idea che i Samadhi Sitaram potessero fare molto di meglio.

Nonostante come detto la musica dei Samadhi Sitaram non abbia nulla di normale, Intro è un preludio classico. Nei suoi due minuti si alternano frazioni soffici con le orchestrazione e altre che mescolano una base metalcore con un florilegio di melodie rutilante, che ricorda addirittura il power metal. È un intro che spiazza – il che probabilmente è voluto: l’effetto si accentua ancor di più quando Kali Yuga entra in scena rocciosa e possente. L’inizio è già di gran energia, ma nell’evoluzione il tutto si fa anche più estremo, con strofe rette dal blast beat su cui si stende il riffage deathcore minaccioso di Sergey Zakharov, corredato dal growl potente di Leonid Grushko. Si rallenta un pochino coi ritornelli, che restano devastanti a livello ritmico e  guadagnano molto in fatto di atmosfera sinistra grazie alle dissonanze delle chitarre e ai potenti cori con cui il frontman duetta. In ogni caso, il tutto è sempre piuttosto movimentato, le varie frazioni si alternano in maniera serrata senza un attimo di pausa; si può tirare il fiato solo al centro, con un breakdown cupo ma non troppo aggressivo. Per il resto abbiamo un brano schizofrenico e difficile da seguire, ma di grandissima efficacia in ogni passaggio: il risultato è di altissima qualità, subito tra i migliori di KaliYuga Babalon! La successiva The Death of a Stone si rivela più diretta e semplice, almeno all’inizio: la norma principale va dritta al punto, con un riffage quadrato e di gran impatto, che pur con qualche variazione interna avanza a lungo ossessiva. Solo ogni tanto viene interrotta da qualche stacco più veloce e vertiginoso, obliquo e denso di particolari che lo rendono alienante. All’inizio sono brevi tratti, ma poi si ampliano: ad alternarsi con l’altra giunge così una norma contorta e ritmata, di vago influsso djent, in cui fanno bella mostra di sé vari influssi, specie elettronici. C’è poco altro nel brano almeno a livello macroscopico, visto che come sempre i Samadhi Sitaram cambiano arrangiamenti a velocità stratosferica. È quanto basta alla traccia per essere ottima, poco lontano dalla precedente per qualità.

All’inizio Apotheosis è un brano diretto e potente, con influssi dal groove e dal thrash metal moderno, ma poi i russi virano su una norma più classicamente deathcore, serrata e martellante. È ciò che regge gran parte delle strofe, in alternanza con frazioni più lente e che puntano su ritmiche di chitarra grasse, possenti, dall’andamento quasi osceno. Questo dualismo si mantiene per poco, poi il brano vira su qualcosa di ancor più aggressivo, una norma death metal rabbiosa e schizofrenica, imprevedibile. È una scheggia con una base macinante che si fa sempre più oscura e feroce, fino a raggiungere un apoteosi (è proprio il caso di dirlo) di cattiveria assurda, guidata dalla batteria battente. il brano torna quindi alla sua norma più lenta, che però ora è diversa: si rivela più diretta, e pian piano diviene ossessiva, fino a che Grushko non comincia a urlare lo stesso verso in maniera ossessiva. È un finale minaccioso, reso tale ancor di più dal nuovo sfogo di gran malvagità che lo conclude: si tratta del momento migliore di una traccia splendida, tra i picchi assoluti del disco! È quindi il turno di Q. Prelude, intermezzo un po’ strano: anticipa alcuni temi e passaggi della traccia successiva nel suo minuto e mezzo abbondante, per poi spegnersi nel caos di echi da cui si era originata. Personalmente, trovo che un pezzo del genere sia abbastanza inutile e senza senso, anche come introduzione per Qliphoth, che di certo è più interessante. Si comincia in modo identico alla traccia precedente, con un arpeggio malinconico a cui si sovrappongono diversi echi, ma lo sviluppa meglio. Stavolta l’evoluzione è più lineare, e va ad appesantire lievemente la norma: anche quando la distorsione scende in campo, la musica resta preoccupata, angosciosa, poco aggressiva nonostante gli elementi estremi. Solo più avanti, dopo una lunga progressione, si svolta sulla norma più arcigna sentita nel preludio, intricata e da mathcore oltre che sinistra grazie alle sue dissonanze. Ciò non dura molto, poi la traccia ricomincia da capo la stessa evoluzione, per poi concludersi con qualcosa di ancora sentito, con tante melodie che si incrociano e un pathos quasi lancinante in scena. È la parte migliore del pezzo, prima che giunga in scena un’altra coda piena di echi, molto lunga; anche il resto però è di buona qualità, per un risultato finale non eccezionale ma buonissimo e coinvolgente.

Come dice il nome stesso, Orgy – Ritual BABALON è una lunghissima ammucchiata piena di rumori diversi. Lo è sin dall’intro, che su una base macinante e ossessiva ma spesso in sottofondo presenta suoni di guerra e di una donna che urla – probabilmente in lingua giapponese. È un intro un po’ prolisso, che va avanti per quasi due minuti e mezzo prima che il brano entri nel vivo con una norma deathcore lenta, dilatata, a tratti quasi tombale, ma che sa anche graffiare. Merito del riffage, sempre energico e distruttivo oltre che sinistro, sia nei momenti più lenti che in quelli retti dalla doppia cassa, più vorticosi. È una bella norma, grazie anche alle variazioni e alle melodie che spuntano qua e là e scongiurano il rischio noia: il problema è che dopo poco viene abbandonata. La traccia comincia allora una lentissima progressione in cui una chitarra lontana scandisce un giro espanso e ridondante, che si ripete molto a lungo insieme a martellanti percussioni poste qua e là. È la base su cui si allungano tanti elementi diversi, che vanno dal parlato di Grushko in russo a fuzz di chitarra, passando per effetti sonori vari (si sente spesso la campana da boxe), synth, effetti cinematografici, cori oscuri e tanto altro ancora. Non sarebbe male se fosse un interludio di un paio di minuti; il problema è che va avanti per quasi undici, e quasi subito viene a noia. Sarò limitato io, ma per me qui i Samadhi Sitaram hanno esagerato in fatto di sperimentazione: il risultato è un mattone indigeribile, che rappresenta senza dubbio il punto più basso di KaliYuga Babalon. E sono convinto che al posto dei suoi sedici minuti i russi avessero schierato tre pezzi anche solo medi, l’album ne avrebbe beneficiato di molto. Per fortuna, nel finale esso si ritira su con Shangri LA, che si distacca un po’ da quanto già sentito in precedenza. Dopo un lungo intro rarefatto, esordisce come un pezzo tranquillo e melodico, con in evidenza un tema malinconico che si ripete spesso in seguito. È quello che regge i ritornelli, di grandissimo pathos nonostante la loro semplicità estrema, coi cori che accompagnano il frontman, ancora abbastanza abrasivo. Le strofe sono invece lievemente più movimentate e pesanti, ma anche qui domina più un certo pathos, e nonostante il growl l’aggressività non è quasi mai spinta. Gli unici momenti in cui ciò succede sono i brevi stacchi leggermente più duri che si aprono qua e là e soprattutto il breakdown centrale, crepuscolare, ma nessuno raggiunge i livelli di ferocia sentiti in precedenza. Abbiamo insomma un pezzo molto melodico, ma anche piacevole e ispirato: come chiusura di quest’album non c’è male!

Per concludere, a dispetto di un po’ di immaturità, dei difetti e di Orgy… che ne abbassano il valore, KaliYuga Babalon è un buon album, con un paio di picchi di qualità assoluta. Bastano già questi ultimi per rendere l’album appetibile: se sei un fan del math e del deathcore più intricato, ti consiglierei di dargli una possibilità. A parte questo, sperò però che i Samadhi Sitaram correggano le loro ingenuità e col prossimo album tirino fuori qualcosa di migliore: la loro originalità e la loro bravura come strumentisti e come compositori meritano di essere sviluppate nel loro pieno potenziale!

Voto: 78/100

Mattia

Tracklist:
  1. Intro - 02:08
  2. Kali Yuga - 02:49
  3. The Death of a Stone - 03:11
  4. Apotheosis - 03.58
  5. Q.Prelude - 01:39
  6. Qliphoth - 04:28
  7. Orgy - Ritual BABALON - 16:09
  8. Shangry LA - 05:32
Durata totale: 39:54

Lineup:
  • Leonid Grushko - voce
  • Sergey Zakharov - chitarra 
  • Alexey Mosin - basso
Genere: metalcore
Sottogenere: deathcore/mathcore
Per scoprire il gruppo: il sito ufficiale dei Samadhi Sitaram

Nessun commento:

Posta un commento