giovedì 16 novembre 2017

Tubefreeks - The Dry Tide (2017)

“Allucinata”: volendo usare una sola parola, è questa la descrizione migliore per la musica dei Tubefreeks, band proveniente dal Maryland e giunta quest’anno al terzo full-lenght The Dry Tide. Il loro genere di base sarebbe hard rock, ma gli americani lo maneggiano in una maniera tutta particolare, portandolo su lidi acidi e sinistri. Ciò gli riesce grazie a svariati influssi, provenienti in special modo da grunge e alternative, ma a tratti anche da stoner, southern e persino dal nu metal. In ogni caso, ognuno di questi elementi è funzionale agli scopi dei Tubefreeks: merito anche di un songwriting che consente loro di amalgamare tutti i vari elementi in un unicum senza grandi spigoli. In più, gli americani presentano molti buoni spunti di personalità, per esempio nelle tante dissonanze piazzate sempre nei punti giusti oppure nella voce acida del cantante Paul Van Valkenburgh, molto adatta al contesto. Sono questi gli elementi che consentono a The Dry Tide di colpire alla grande, soprattutto con la già accennata atmosfera, malsana, allucinata e di gran efficacia, insomma il suo punto di forza assoluto. Peccato solo che ci siano anche dei punti deboli: ogni tanto lungo la sua durata i Tubefreeks peccano un po’ di ridondanza, seppur non sia nulla di drammatico. Più che altro, il problema di The Dry Tide è la presenza di alcuni brani meno incisivi: è questo a non consentirgli di fare il botto e arrivare al capolavoro, pur essendo un album del tutto rilevante.

La opener Wicked Sky comincia subito con la sua norma principale, in apparenza tranquilla: il tempo tenuto dal drummer Geoff Burrell è lento, le ritmiche placide, e anche Van Valkenburgh è più calmo che in seguito. Questa norma però presenta spesso armonizzazioni che la rendono sinistra anche nella sua tranquillità; in più a tratti appaiono notevoli scoppi di energia, di gran impatto. Vale lo stesso anche per le strofe, vorticose e molto cupe, nonostante una certa leggerezza sia presente anche in esse. Buone anche le molte variazioni presenti, tra cui spicca la lunga sezione centrale, meno cupa del resto e quasi con un retrogusto southern. Sono arricchimenti per un pezzo mai noioso nonostante la sua distensione, e che risulta poco sotto ai migliori di The Dry Tide: un’apertura in grande stile, insomma. Dopo un brevissimo preambolo, Motoride si rivela quindi un brano di hard rock grasso e potente, senza particolari fronzoli. Poi però l’anima alternativa dei Tubefreeks rientra in scena, spostando il tutto in una direzione più preoccupata, nervosa, seppur non manchino momenti più semplici e diretti. Man mano però la musica tende verso l’oscurità, specie nelle strofe, molto cupe, movimentate ma quasi con un tocco a là Black Sabbath ogni tanto. Si cambia verso per ritornelli che pendono più sul lato esplosivo del pezzo, ma senza rinunciare a un lieve velo malsano. La stessa aura pervade anche le frazioni che compaiono ogni tanto, lente ma di gran impatto, grazie alle ritmiche e alla voce raddoppiata del frontman. A parte queste, c’è spazio soltanto per un paio di buoni assoli di Brian Murray – una delle costanti migliori del disco; per il resto la struttura è molto lineare, ma non è un problema. Abbiamo lo stesso un brano eccezionale, uno dei migliori di The Dry Tide. Dopo due episodi più o meno potenti, con Way to the Sun l’album vira su una norma più distesa. All’interno delle strofe le ritmiche di forte influsso stoner serpeggiano energiche ma senza grande inquietudine: stavolta l’atmosfera è rilassata. Cambiano verso i chorus, ma senza aggredire: sono lenti, dilatati, malinconici, grazie alle dissonanze di chitarra che ricordano il grunge più psichedelico. Nonostante la differenza, l’unione tra le due parti funziona molto bene, grazie anche all’abilità degli americani di rendere il tutto compatto e senza spigoli. Buoni anche i due passaggi strumentali al centro e nel finale, gli unici davvero pesanti nel pezzo, ma senza essere troppo cupi: riprendono spesso la norma più disimpegnata del pezzo, e la corredano con ritmiche di buon impatto e buoni assoli. Abbiamo insomma un altro brano di alta qualità.

Reckoning è retta per buona parte dal riffage circolare e rockeggiante del chitarrista Todd Stevens, reso però dilatato dalla voce del solito Van Valkenburgh e dal ritmo lento. I refrain accentuano anche di più questa natura, e si presentano  dilatati e calmi, forse anche troppo: perdono così un po’ di mordente, il che li porta a incidere meno. Lo stesso vale per  i momenti strumentali, rocciosi e vorticosi ma senza riuscire a incidere a sufficienza: appaiono un po’ banali, scontati. Buona invece la frazione centrale, con molta efficacia sia nei riff che nella solita parte solistica. Abbiamo nel complesso un pezzo piacevole, ma che in The Dry Tide tende a non spiccare più di tanto. Per fortuna però l’album si ritira su con Deracho, retta sin da subito da una base seriosa, denotata da un riffage graffiante di chiaro influsso metal. Si tratta di una falsariga che a tratti suona più rock e tradizionale; le strofe invece la ripresentano in una maniera  più spoglia e cupa, sensazione che aumenta man mano che il complesso si evolve. I Tubefreeks cambiano poi strada del tutto per ritornelli striscianti, energici e dissonanti, con un’aura malata che colpisce dritto in faccia, di estrazione alternative metal al cento percento. Ancora una volta, al centro è presente un altro cambio di direzione, che porta la musica su una norma quasi giocosa ma si incastra bene nella seriosità del resto. È un buon punto di forza per una traccia semplice ma d’impatto, non troppo distante dalle migliori del disco! Dall’attacco lento e placido, molto sabbathiano, la successiva Anathemy dà l’idea quasi di pendere sul lato più psichedelico degli americani. Poi si cambia strada verso una frazione ancora lenta ma monolitica, di gran impatto con le sue dissonanze e il riff circolare di efficacia splendida, reso anche più malsano dalle urla di Van Valkenburgh. Questa base è protagonista di lunghe cavalcate dal grande impatto, intervallate da frazioni più lente e dilatate: di norma sono brevi, tranne al centro, quando è di scena un lungo assolo su una base a metà tra le due norme sentite in precedenza. Non c’è altro in un episodio molto lineare ma ancora una volta di ottimo livello.

Mind Eraser prende il via da un preludio preoccupato e crepuscolare. Ma è un inizio fuorviante: la traccia vera e propria è animata e divertente, con un riffage grasso e sferragliante che incide bene a lungo e il frontman che dà il meglio di sé con la sua voce. Calano invece di voltaggio i bridge, ma senza rinunciare alla stessa animazione: sono il preludio a ritornelli che riprendono un po’ la falsariga precedente, ma in maniera più catchy e con una vaga malinconia di sottofondo, data anche dagli influssi southern. È lo stesso che poi viene fuori con più potenza anche negli stacchi presenti nella seconda metà, dilatati e pieni di dissonanze, che riprendono l’inizio. Anche essi si integrano bene in un brano di grandissimo impatto, il picco assoluto di The Dry Tide con Motoride! Purtroppo però la seguente Nevada presenta elementi già sentiti in precedenza: inizia come un brano rock disimpegnato, ma poi si fa obliquo e stridente, con strane strofe circolari. È una norma che va avanti a lungo con la sua tensione, per poi sciogliersi in brevi momenti alternativi e ancora disarmonici ma più calmi, con un senso meno ansioso di preoccupazione. C’è spazio anche per un paio di assoli del solito Murray, che però stavolta fanno poco la differenza – anche se lo stesso si può dire del resto del pezzo. Per quanto piacevole, quasi tutte le soluzioni non incidono granché, lasciano il tempo che trovano, e la durata ridotta fa il resto: abbiamo un brano carino ma che in una scaletta simile risulta il punto più basso in assoluto. Per fortuna ora il disco si ritira su con Whisper, che in principio si mostra melodica e nostalgica. È una sensazione che perdura anche nello sviluppo successivo, con ritmiche potenti ma anche di bel pathos, sempre ben presente anche nella voce di Van Valkenburgh. Ciò è avvertibile ancora di più nei momenti più tranquilli che si aprono qua e là, più armoniosi e avvolgenti in un calore quasi palpabile, solo leggermente oscuro: più che altro è una certa malinconia a dominare. L’unico momento che cambia verso è quello al centro, che vira su un mood più disimpegnato; ancora una volta però è notevole la capacità dei Tubefreeks a incastrarlo nel pezzo senza la minima stonatura. Anche per questo, abbiamo l’ennesimo pezzo riuscito bene in The Dry Tide.

Con Into the Fray si torna a qualcosa di più rutilante: abbiamo un pezzo movimentato e rock sin dall’inizio. Anche quando il tutto si calma un pelo, le strofe sono sempre movimentate e divertenti, e durano poco prima di confluire in ritornelli che riprendono la norma iniziale con un impatto buono. Sembra quasi che debba essere un pezzo disimpegnato e lineare del genere per tutta la durata quando invece gli americani virano di colpo su una norma del tutto diversa. Retta da un arpeggio di chitarra distorta solo in parte, è una frazione morbida ma depressa e lancinante, grazie anche a melodie grunge che a tratti sembrano quasi un tributo ai Nirvana. Il momento migliore della frazione è però l’assolo finale, che riprende e sviluppa bene l’angoscia della base in qualcosa di molto incisivo. È un grande arricchimento per una seconda parte splendida di un pezzo buonissimo anche di per sé, non troppo distante dal meglio del lavoro! È ora il turno di Dazy, con cui torniamo a qualcosa di più disteso: sin dall’inizio si rivela un brano semplice e rock, caratterizzato da un bel riffage spezzettato e catturante. È quello che regge buona parte della canzone, specie le strofe, placide e sottotraccia grazie alle ritmiche di Stevens e a Van Valkenburgh, entrambi più mogi. Leggermente più intensi sono i chorus, con un riffage di discreta intensità ma senza esagerare: il tutto evoca sempre un certo senso di distensione. In sottofondo c’è però anche un’aura di tristezza vaga, impalpabile, che rende il tutto lievemente malinconico, ma lo aiuta anche a colpire meglio e a essere più sfaccettato. Aiutano in questo senso anche le venature blues presenti – specialmente nel ritmo – e i piccoli soli che compaiono qua e là. Nel complesso abbiamo un pezzo che non spiccherà moltissimo in The Dry Tide ma sa il fatto suo e risulta godibile. A questo punto, siamo ormai alla fine dei giochi: l’album si chiude con O.T.S., lungo outro molto semplice: è costituito solo dall’incrocio tra una chitarra pulita e il lieve basso di Jon Weed, per un mood sottile e malinconico. È una base ossessiva che va avanti a lungo con giusto qualche variazione di sfumatura, che la porta a farsi a volte più intensa a livello sentimentale e altrove più spoglia: è quanto basta per renderlo interessante e a scongiurare la noia. Abbiamo insomma un finale strano ma piacevole, che non stona alla fine di un lavoro così.

Insomma, nonostante alcuni suoi difettucci The Dry Tide è un ottimo album, che vale l’acquisto soltanto per i suoi pezzi migliori. D’altra parte, è vero che forse per la sua particolarità e il suo essere così allucinato e dissonante non è un ascolto per tutti i palati. Se però le branche più potenti e malsane dell’hard rock, del grunge e dell’alternative sono pane per i tuoi denti, allora il mio consiglio è di concedere subito ai Tubefreeks una possibilità: non te ne pentirai!

Voto: 84/100

Mattia

Tracklist:
  1. Wicked Sky - 04:10
  2. Motoride - 03:59
  3. Way to the Sun - 03:20
  4. Reckoning - 03:56
  5. Deracho - 03:09
  6. Anathemy - 03:21
  7. Mind Eraser - 03:08
  8. Nevada - 02:45
  9. Whisper - 03:44
  10. Into the Fray - 04:10
  11. Dazy - 04:03
  12. O.T.S. - 03:08
Durata totale: 42:53

Lineup:
  • Paul van Valkenburgh - voce
  • Brian Murray - chitarra solista
  • Todd Stevens - chitarra ritmica
  • Jon Weed - basso 
  • Geoff Burrell - batteria
Genere: alternative rock/grunge
Sottogenere: alternative hard rock
Per scoprire il gruppo: il sito ufficiale dei Tubefreeks

Nessun commento:

Posta un commento